La Casa dei Nonni - 2

La Casa dei Nonni - Seconda Parte

Ricordi d'infanzia - n.6

Continua dalla PRIMA PARTE.

Non solo una visita topografica o l'elenco degli oggetti di quel luogo, ma anche lo spunto per mille ricordi e nostalgie di tempi lontani.


L'appartamento Riprendiamo la visita dalla sala d'attesa col cielo dipinto.
Dalla sua porta a sinistra eravamo saliti ai vari locali del secondo e terzo piano, ma adesso dobbiamo tornare dabbasso e proseguire laggiù.
Tralasciamo la scala sulla destra, che porterebbe all’appartamento dei miei cugini e continuiamo diritti.
Ecco finalmente l’ingresso all’appartamento principale, quello dei miei nonni.

Ma Chi Erano i Miei Nonni?

Prima di addentrarci nella loro abitazione è bene che vi accenni un poco alle loro storie personali.
Il nonno era nativo di Pellestrina, che è una delle lunghe isole che fanno da barriera tra la laguna e il mare. È un luogo visitato e descritto anche da Ernest Hemingway, interessante e caratteristico per i “murazzi”: un’alta barriera in pietra d’Istria, costruita dalla repubblica Veneta nel '700, che percorre la stretta lingua di terra come una spina dorsale, per tutta quanta la lunghezza, per proteggerla dai venti e dalle mareggiate.

Quella del nonno era un'antica famiglia di commercianti di legname, che importavano dall’Istria sulle loro barche. Era un materiale fondamentale per l'edilizia e la nautica, il cui commercio rendeva bene; forse, erano anche proprietari di qualche segheria e laboratorio per la sua lavorazione. Si trattava quindi una famiglia benestante.
A Pellestrina hanno e avevano quasi tutti lo stesso cognome. Per meglio identificarsi erano necessari dei qualificativi; sembra che per la famiglia del nonno si usasse precisare "detti monco". Soprannome dovuto al fatto che un loro avo, ufficiale della marina austriaca, aveva appunto subito l’amputazione di un braccio durante una battaglia navale.

Il nonno era uno di numerosi fratelli, almeno sei o sette, tra maschi e femmine, che alla morte dei genitori si erano accordati per non disperdere troppo le loro proprietà. Sta di fatto che se l'erano suddivise penalizzando un poco mio nonno.
Vero o falso, non si sa, ma la nonna, sua moglie, gli rimproverava talvolta di essersi fatto liquidare "per una pipata di tabacco".

Con la sua quota di eredità, il nonno, già in età giusta per cercar moglie, s’era trasferito a Chioggia, dove aveva fatto conoscenza in affari col fratello della nonna.
A Chioggia s’era trasferita anche Rosetta, una sorella del nonno, però per andare monaca in convento. L'ho conosciuta e sono andato a trovarla anch’io qualche volta: era una timida, dolce suorina del convento delle Canossiane.
Lei ci regalava dei quadretti sacri, con la cornice in legno compensato, sagomato al traforo e foderata di velluto, oggettini che fabbricava personalmente per darli ai vari benefattori del convento.
Ma poveretta, era stata costretta a farsi suora, perché, dopo un lungo fidanzamento, il suo promesso sposo l’aveva rifiutata e agli altri fratelli non era sembrato vero di indurla a farsi suora, così gran parte della sua dote sarebbe rimasta tra i beni di famiglia.
Ma forse erano solo dicerie.

Per quanto riguarda, invece, la mia nonna, pure lei, ancora giovanetta, aveva perso i genitori, ma aveva un fratello maggiore, che era diventato il suo tutore.
Vivevano abbastanza agiatamente (vi ho già accennato alle "cento case") ed il fratello era molto abile, accorto nel commercio.
Sapeva anche stare al passo coi tempi. Ad esempio, lui e la sorella sono stati i primi a Chioggia ad andare in tandem, suscitando anche un po' di scalpore, perché la nonna era una "signorina per bene", che non avrebbe dovuto esporsi in quel modo agli occhi della gente.

Quando il fratello ha trovato la propria anima gemella, si è dato da fare per accasare anche la sorella, così le ha fatto incontrare il nonno, che, come vi ho detto, aveva incrociato negli affari.
Si raccontava sottovoce, che, dopo la prima visita ufficiale, il nonno fosse tornato a bussare alla porta con la scusa di aver scordato là un guanto e che avesse allora strappato un bacio galeotto alla nonna, andata ad aprirgli.
Fatto avvenuto proprio su questa porta che adesso stiamo per varcare, uscio dotato di uno strano spioncino dietro ad una grata quadrata.

Il Corridoio e il Sottoscala

Quando noi nipoti bussavamo o suonavamo, la nonna arrivava trascinandosi i piedi e dondolandosi un po', con le ciocche di capelli bianchi in disordine, sempre vestita di nero sotto al grembiule da cucina.

Quell'uscio dava accesso a un corridoio luminoso e signorile, con pareti dipinte a stucco a imitare pannelli in legno di noce, una panchetta in legno a due posti con schienale e braccioli, una consolle con marmo e specchiera, un alto trespolo in legno scuro a ripiani.

I gatti La luce arrivava, oltre che dalla finestra fronteggiante l’ingresso, dai vetri gialli della porta della cucina e dalla porta della sala principale, il "tinello", il cui grande vetro satinato, era inciso col disegno di un alto vaso pieno di fiori.
A turbare un poco l'atmosfera formale del corridoio, poteva esserci una scodella o un piatto con qualche avanzo di cucina sotto alla finestra. Infatti, all'ora giusta, la nonna era solita aprirla e richiamare i gatti del cortiletto sottostante:
– Micirini, micirini ... – e gettare giù a loro quel cibo.

Nel corridoio c'erano altre due porte: una d'accesso ad un salottino, ovvero al "tinelletto", l’altra al sottoscala. Era quello un utile ripostiglio per biciclette e cose varie, ma anche il luogo buio, ideale dove noi ragazzini ci rinchiudevamo per farci i tatuaggi con le “gocce di fosforo” ed anche per vedere le scintille, prodotte battendo forte tra loro i sassi focai che ci portavamo a casa.

Il Tinelletto

Il tinelletto era un luogo molto tranquillo con due ampie finestre. Al centro aveva un grande tavolo rotondo, dove i nonni pranzavano quando erano da soli. La nonna non vi si attardava e tornava presto in cucina; non così invece il nonno, che lì si dilungava un poco.
Il cibo principale della casa era il pesce, di qualunque tipo e specialmente cucinato ai ferri, in cui la nonna era una vera specialista.

Quando noi alla sera tornavamo dalla spiaggia, passavamo in quel tinelletto a salutare il nonno e spesso lo trovavamo ancora a tavola, col suo cappello in testa, attardato con la frutta.
Anche se gli dicevamo che avevamo già cenato, lui ci offriva sempre insistendo gentilmente, un “persego” o un grappolino d’uva.
Infatti, tanto era stato severo coi suoi figli, altrettanto era affettuoso e buono coi suoi nipoti. Ricordo che se per caso ci incontrava per la strada, "sotto ai portici", si commuoveva solo per il fatto di vederci, con una vera lacrimuccia spuntata negli occhi.
Singer Caro nonnino finché c'è l'hai fatta te ne andavi in giro, trascinandoti i piedi e aiutandoti col tuo bel bastone da passeggio!

Altri arredi del tinelletto erano: un grande mobile sul fondo, qualche mensola, una grande stufa; ma l’oggetto più particolare era una vecchia macchina da cucire, Singer, a pedali, ancora funzionante sotto al suo coperchio pentagonale di legno.
Forse era la stessa che, nel racconto di mia mamma, durante la prima guerra mondiale, nel momento di Caporetto, la nonna s’era portata dietro da Chioggia, sfollando coi suoi cinque ragazzi sull'Appennino, a Sasso Marconi.

La Camera da Letto

Dal tinelletto, si poteva accedere alla camera da letto dei nonni. Ma era quello un luogo abbastanza riservato, che non visitavamo quasi mai.
Orologio sotto vetro Ricordo: mobili antichi, un comò alto con tanti cassetti, marmo e specchiera, sul cui piano c’era un bellissimo orologio, incastonato in una scultura dorata e protetto da una grande campana di vetro.
Ovviamente non mancava la “comoda”, la sedia WC, un tempo indispensabile per le necessità fisiologiche notturne, dato che il bagno era lontano.
La finestra della camera da letto dei nonni dava sul Corso del Popolo ed era identica a quella del tinello, che vi descrivo tra un attimo.

Alla sera, prima di ritirarsi lì a riposare, il nonno passava ricaricare tutti gli orologi della casa.
Il più curioso era il cucù del tinello, che aveva una “carica a contrappesi”: due pigne di bronzo attaccate a lunghe catenelle. Per caricare l’orologio, il nonno faceva risalire quelle pigne fin su in alto, cosicché col loro peso in discesa ne avrebbero alimentato il meccanismo per le successive 24 ore.

Il Tinello

Veniamo ora appunto alla stanza d'onore: il tinello.
Per mantenere, volendo, aperta la sua porta c’era un oggetto molto particolare, che sembrava sì uno stretto porta ombrelli in ottone, ma che in realtà era un pesante bossolo di bomba d’aereo, chissà come arrivato fin là.

Entrando, a destra stava la consolle commemorativa dello zio aviatore, con una grande foto, qualche fiorellino, non importa se già secco, dei santini colorati, uno o due lumini elettrici e altri ninnoli e ricordini affettuosi.

Lo stile dei mobili principali era neorinascimentale, in legno scolpito e un po’ scurito dal tempo.
Il tavolo da pranzo era imponente, quadrato da chiuso, ma allungabile fino a 10-12 posti.
La mamma mi raccontava che il nonno, che sedeva a capotavola, si portava una lunga bacchetta con cui arrivare a colpire questo o quello dei fratelli, se durante il pranzo si comportavano male.
Lui teneva a fianco del piatto anche un campanello a pulsante, con cui chiamava le domestiche perché venissero a portare su e giù dalla cucina le vivande e le stoviglie.

Le domestiche erano due, di cui una, era l'Alice (pronunciato però con l'accento sbagliato, sdrucciolo e non piano). Era la donna di fiducia, accolta in casa fin da ragazza dall'orfanotrofio e cresciuta in pratica con la famiglia, per dare in cambio aiuto nel gestire i figli più piccoli.
Tutti le erano rimasti affezionati e la nonna l’aveva aiutata a sposarsi, ma la poverina neppur allora era riuscita ad avere una vita felice.
Quando eravamo piccoli e mia mamma insegnava le preghiere a me e a mia sorella, lei le terminava sempre con: "un Eterno Riposo per la povera Alice e la zia Rosetta".

Lampadario Ma torniamo al tinello. Il tavolo di cui parlavo stava sotto ad un grande lampadario di Murano, prezioso, in vetro dorato e sfumato, molto ricco di luci, fiori e foglie. Così ricco che i danni non si sono mai fatti notare quando, stappando qualche bottiglia di spumante, ne abbiamo, ahimé, fatto cadere qualche scheggia o frammento.

Lungo le pareti stavano una credenza con vetrina e una contro-credenza, decorate con mille riccioli, fregi e teste scolpite, così come è tipico dello stile neorinascimentale, e con tanti oggettini sui piani e nelle vetrine.
In un angolo potevi trovare un bellissimo tavolino in noce, con la dama intarsiata sul suo piano quadrato, dove anche noi abbiamo provato a giocare.
Nell'angolo opposto stava una grande stufa, in coccio rossiccio, là mantenuta come complemento decorativo anche dopo l'installazione del termosifone.
Le sedie erano molto semplici con la seduta rotonda, in paglia di Vienna.
Negli ultimi anni sono stati aggiunti qualche poltrona, un letto di emergenza e il televisore: proprio quello su cui abbiamo seguito le olimpiadi del '60. L'unica trasmissione che la nonna, già molto anziana, riusciva e desiderava vedere era la rubrica di "Padre Mariano" al sabato sera.

Ma veniamo alla maggiore attrazione di quella stanza per noi ragazzini: il “pergolo”.
E’ il termine veneto che designa una finestra col davanzale abbassato a sufficienza per potersi lì sedere, col piano adeguatamente profondo, leggermente sporgente all’esterno e contornato da un ringhierina metallica, intrecciata.
Di giorno ci stavano le gabbiette dei canarini e del cardellino; alla sera era un ottimo scorcio sul mondo, una vista sul passeggio del Corso del Popolo e i bar sottostanti.

L’ultima volta che sono stato a Chioggia quella strada era diventata un triste parcheggio di automobili, ma anni fa era il luogo specifico del passeggio serale, dove era bello camminare su e giù, guardarsi intorno, salutare conoscenti e fare amicizie.
Il corso va dalla piazzetta Vigo fino al sagrato di Santa Maria, per circa mezzo chilometro; una volta arrivati in fondo si faceva dietrofront e, se non si era stanchi, si ricominciava; era quindi il tipico giro di “vasca”. Il passeggio avveniva in mezzo alla strada, perché sui lati stavano 4-5 file di tavolini dei bar.

Corso del Popolo Chi non scendeva a passeggiare poteva però guardare dalle finestre quelli che lo stavano facendo e chi era là che passeggiava poteva guardare quelli che stavano affacciati. Così facevano anche le mie zie, da ragazze, dal quel pergolo al primo piano, mentre i giovanotti, con la riservatezza di quei tempi, le sbirciavano e facevano loro qualche occhiolino.

È proprio stato in questo modo che la sorella maggiore della mamma ed il suo futuro marito hanno fatto i loro primi timidi approcci. Quel giovanotto era stato soprannominato “volta-campanile”, perché gli bastava arrivare fino alla chiesa di S.Andrea, fronteggiante quel pergolo, occhieggiare la sua bella e invertire la marcia senza proseguire fino a Vigo, abbreviando il giro di vasca, ufficiale del passeggio.

Anche a me e a mio cugino è piaciuto sederci su quel balconcino qualche sera: ci stavamo comodamente tutti e due. Non era però per occhieggiare, non avevamo ancora né l’età, né l’interesse. Lo facevamo per starcene un po’ al fresco, osservando e magari ironizzando su qualche passante più buffo o che ci incuriosiva.

Ad esempio, poteva passare di là chi avevamo soprannominato "Picchio": un signore che ci capitava di incontrare spesso al cinema serale dei Salesiani, all'aperto. Là lui si faceva notare per i suoi commenti a voce alta, sia sulla vicenda in proiezione, che sull'apparizione di qualche stella cadente, che attraversava tutto cielo sopra di noi. Il mese d'agosto è il periodo giusto per vederle.

Noi due, dal pergolo, facevamo, ahimè, anche brutti scherzetti da veri monellacci.
Ad esempio, una volta avevamo portato a casa dalla campagna dei grappoli d'uva, ancora acerba.
Non era commestibile, ma avevamo trovato lo stesso il modo di usarla: spegnere la luce, lanciare quei chicchi in mezzo a chi passeggiava e nasconderci nell'ombra a godercene gli effetti. Eravamo distantissimi e al buio: i malcapitati non sapevano da che parte guardare e chi incolpare.

Più rischioso era lanciare quei chicchi non su chi passeggiava, ma su chi stava seduto ai tavolini dei bar di sotto.
Certamente rischioso, però ancora più eccitante, perché, se il chicco rimbalzava sul piano metallico di un tavolino, faceva un bel suono che spaventava ancor di più le nostre vittime. E qualche volta il chicco deve essere caduto giusto nella consumazione ...!
Falena Tutte cose che non si dovrebbero fare, ma le abbiamo fatte; comunque son passati 70 anni e, senza ombra di dubbio, sono andate in prescrizione.

Un'altra volta abbiamo disturbato quegli avventori senza averlo progettato.
Avevamo trovato sul pergolo una farfalla notturna, una grossa falena. Da sciocchi l’abbiamo legata ad un filo e l’abbiamo lasciarta svolazzare lì attorno, ma appena s'è stancata quella poveretta è atterrata sui clienti seduti al bar di sotto, con loro grande raccapriccio.
Ci hanno scoperti e il Marsià è venuto su a lamentarsi con la zia.
Beh, quella volta non l'avevamo davvero fatto apposta.

La Cucina e il Bagno

Vengo adesso a descrivervi i locali di servizio dell'appartamento dei nonni.
Inominciamo dalla cucina che stava nel corridoio appena a sinistra dell'ingresso, all'estremità opposta del tinello.
La sua porta era a vetri a due ante, fatta in modo da potersi aprire a spinta, sia entrando che uscendo dalla cucina, soluzione molto comoda per chi va su e giù con piatti e vivande in mano.

Entrando, a destra si trovava un piccolo slargo con un grande acquaio, "scafa", sempre pieno di oggetti da lavare e di stoviglie già pulite, lasciate lì ad asciugare. E poi: scope, stracci, secchi e arnesi per le pulizie.

Mistra Invece, sulla sinistra, stava una lunga credenza in legno scuro, scantonata, tipica veneta.
Tra gli oggetti lasciati sul suo ripiano ricordo bene un vassoio coi bicchieri capovolti ed una fiaschetta in vetro con beccuccio metallico, contenente il "mistrà", un liquore all'anice, esposto lì per tradizione e il cui scopo sarebbe stato quello di disinfettare un poco l'acqua, quando un tempo non c'era a Chioggia il vero acquedotto.
Se i nonni me l'offrivano io cercavo di rifiutarlo, perché non mi piaceva granché.
Su quel mobile c'era pure, sempre pronta, una bugia e un caratteristico lume ad olio, in ottone, a tre beccucci per tre fiammelle, lasciato lì però per bellezza.

Prima dell'arrivo del frigorifero, sulla parete a lato stava appeso un "moschetto", cioè una credenzina con un'anta fatta con una reticella metallica, luogo dove si potevano lasciare i cibi cucinati, senza timore delle mosche.

Tralascio gli arredi ovvii: tavolo, sedie, credenza a vetri, per ricordare invece l'oggetto principale del locale: il focolare.
Era quello un vero focolare, con la grande cappa in mattoni e il piano sporgente con gli alari, gli attrezzi, le griglie e magari qualche tizzone o brace accesa. Però, per le cotture più semplici, c'era anche una cucina economica a gas metano con la sua bombola, sostituita con fornelli più moderni, quando il focolare è stato rimosso.

Presine Hamburger La nonna era una cuoca abilissima, sia sul focolare che sui fornelli. La sua specialità era ovviamente il pesce, di ogni tipo e cottura, che era l’alimento principale della casa.
Ultimamente però aveva bisogno degli occhiali; se non li metteva combinava qualche pasticcio, come quella volta che ha cucinato in padella due prendipentole rotondi, scambiandoli per due hamburger.

La nonna aveva anche un peccatuccio di gola, la mortadella, che lei affermava "essere la cosa più buona al mondo", così se la mangiava di gran gusto.
Tuttavia non c’era nessun cibo che le potesse far male, perché aveva un toccasana universale: il purgante.
Non sorridete, perché con questo suo metodo s'è mantenuta benino fino oltre i 90 anni.
Non c'era purgante o lassativo che lei non avesse provato: in giro per la cucina trovavi boccette, scatoline e bustine, sia piene che vuote, di magnesia, sali amari, olio di ricino, olio di mandorle, ecc.

Se durante l’estate mi capitava un po’ di febbre, un’influenza o un colpo di sole, la nonna dichiarava che mi ci voleva un purgante e mi chiedeva quale scegliere; io allora optavo per la “limonea” (limonata purgativa), un purgante che oggi non s'usa più, un liquido di un bel color arancio ma di sapore pessimo, che lei andava a comperare in farmacia, portandosi direttamente il bicchiere in cui farselo versare.

Alla sera trovavo in cucina anche le gabbiette degli uccellini, che il nonno vi portava e copriva poi con uno straccio, perché non fossero disturbati dalle luci e dal nostro andirivieni.

Dalla cucina si poteva accedere alla stanza da bagno, veramente spartana.
La cosa più particolare era un grande armadio, quello che in veneto si chiama "armaron", ripieno fino all'inverosimile di biancheria, lenzuola e coperte. Nonostante il locale non fosse piccolo, se aprivi una sua anta non si riusciva quasi più passare.

Doccia in arrivo La parete divisoria di fondo, dove c'erano i servizi, confinava col vano cucinino con l'acquaio e non arrivava fino al soffitto per lasciar così passare la luce dalle finestre di quel localino.
Ma c'era anche il rischio che tra noi cugini ci si facesse qualche scherzetto, lanciando dal di là una bicchierata d'acqua su chi se ne stava di qua impegnato nelle proprie esigenze.

Concludo tutti questi ricordi con una sentenza filosofica del nonno.
Se c'era qualcosa che non andava bene, lui cercava di non prendersela e s'allontanava borbottando sottovoce il suo motto: "andemo avanti", versione sua personale del "tiremm innanz" di Salvatore Sciesa.



Ciao nonno



Fine Seconda Parte

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G.A.

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