Estate: Varie

Estate: Varie

Ricordi d'infanzia - n.9

Raccolta dei miei ricordi estivi a Chioggia, che non hanno trovato spazio nei racconti precedenti.


In Bicicletta

Una delle nostre mete più vicine e frequenti era "andare dall'Armando", un contadino, piccolo proprietario che aveva la sua cascina e i campi nella zona di Brondolo, un borgo sulla riva del fiume Brenta.
Le prime volte ci siamo andati con mio zio Ettore.
Quel contadino gli era molto riconoscente per i consigli che lui, cancelliere al tribunale, gli poteva dare e ci accoglieva sempre con piacere.
A mio zio piaceva andare a trovarlo, sia come occasione di una gita in campagna, sia per tornarsene a casa con le borse piene di frutta e verdura.
Le prima volte io e mio cugino Pino ci siamo andati con lui, poi da soli.

Erano cinque, sei km da fare in bicicletta, dapprima su strada asfaltata, ma, arrivati a Brondolo, bisognava abbandonarla e proseguire su un viottolo campestre per fare ancora un bel pezzetto di percorso, abbastanza tortuoso.

Pesca nel canale di Brondolo Giusto dove lasciavamo la strada asfaltata, c'era, e forse c’è ancora, un fortino, circondato da un largo fossato, profondo due o tre metri.
Quando lì c'era il passaggio di comunicazione tra il mare e la laguna (soppresso quando il fiume è stato deviato) quello era un punto strategico per la difesa del canale. Una prima fortificazione è stata costruitra durante le guerre fra le repubbliche marinare, Genova e Venezia.
Durante le guerre napoleoniche è stato costruito un nuovo fortino e, più tardi nel ’48, una postazione difensiva contro gli austriaci.

Nel canale attorno a quel forte il padre di Armando, un signore già abbastanza anziano, ma ancora svelto e scattante, ci teneva un piccolo allevamento di cefali e pesci d'acqua salmastra.
Ogni anno ci buttava il novellame e, al bisogno, con una barchetta minuscola, di poco più di due metri, ed un corto tramaglio andava a pescarselo.
Era davvero curioso vederlo destreggiarsi in quel lavoro.
Non smetteva mai di parlare, intercalando in continuazione:
– I xse birboni, i xse massa furbi!
Il pesce era buono; qualche volta l'abbiamo portato a casa, acquistato o in regalo.

Se stava pescando ci fermavamo volentieri a guardarlo, poi riprendevamo la nostra strada verso la fattoria dell'Armando.
Da lì, per arrivarci, bisognava pedalare ancora per un bel pezzetto di sentiero, stando ben attenti a schivare le buche e le zone di sabbia asciutta, per non cadere. C'erano tante curve, perché in campagna le strade non vanno mai in linea retta, ma di casa in casa: da quella di Nino a quella di Toni, poi a quella di Lino e via così.

La fattoria dell'Armando Armando e sua moglie ci accoglievano sempre volentieri e ci lasciavano gironzolare per la fattoria.
A noi piaceva andare a curiosare nella stalla. Poteva esserci un nuovo vitellino e poi, lì accanto, c'era il pagliaio dove divertirci, provando ad infilarci e a seppellirci completamente.
Però dopo: che pazienza per togliersi dai vestiti e dai capelli tutti quei fili e fuscelli di paglia e di stoppie!

Era bello anche visitare l'orto e i campi, ma ci piaceva in particolare andare in un prato dove Armando aveva cominciato a costruire una casetta per il primo dei figli che si sarebbe sposato (ne aveva parecchi).
In campagna si usava appunto far così: il contadino (che sa far di tutto, anche il muratore) con o senza autorizzazione, appena aveva qualche soldo e un po' di tempo cominciava a metter su qualche mattone, uno sull'altro.

Là trovavamo un rustico incompleto, in attesa di altri soldi e nuova fatica, però il luogo era lo stesso accogliente e rilassante con una bella vista sul fiume, dove sta per confondersi nel mare.
Accanto c'era anche il vigneto di uva bianca, che sarebbe maturata a fine estate, ma noi provavamo lo stesso ad assaggiare qualche chicco meno acerbo.
Magari ci prendevamo un paio di grappoli nella speranza che maturassero una volta tornati a casa. Speranza vana, ma trovavamo lo stesso come usarli, come avete magari letto nel mio racconto "La Casa dei Nonni".

Avevamo anche altre mete per i nostri giri in bicicletta.
Una era attraversare il fiume, il Brenta, e proseguire verso Sant’Anna e Cavanella d’Adige.
Se avevamo voglia e tempo arrivavamo fino al bosco di Nordio, dove c'era una ricca vegetazione di alberi e arbusti mediterranei. Ci interessavano i pini marittimi, per cercare i pinoli. Però al nord le loro pigne maturano tardi e le trovavamo quasi tutte ancora chiuse e senza semi.

In bici lungo il Brenta Un'altra delle nostre mete era risalire il Brenta verso Ca’Bianca.
La strada costeggia il fiume per qualche chilometro sul lato sinistro.
Noi la seguivamo per poi attraversarlo dove gli confluisce il Bacchiglione, ed arrivare così in una zona che chiamavamo "campo missili".

Si vedevano solo prati e filo spinato, ma sapevamo che là sotto c'era una base NATO.
Anni dopo s’è sparsa la voce che vi stavano nascosti anche missili con testate nucleari, con rischio di radioattività per tutta la zona. Presto hanno smantellato tutto e non se n'è più parlato, ma per conoscenza diretta confermo che in quel circondario ci sono stati, purtroppo, parecchi casi di morte per tumore.

Brutte Giornate

Anche d’estate può capitare ogni tanto una giornata di pioggia e brutto tempo.
Quando succedeva si doveva rinunciare alla spiaggia e si restava in casa.
Cinque maschi tra i nove ed i sei anni: che cosa mai potevano fare tra quattro mura?
Beh, là di spazio ne avevamo davvero parecchio, dato che c’era permesso di fare scorribande anche nelle soffitte.
Erano parecchi i locali adibiti a quello scopo, tutti al terzo piano. Sopra all'appartamento dei miei cugini c’erano quelli più interessanti, almeno per me, che avevo meno occasioni per andarci. Mio cugino mi guidava su per una rampa di scale.

Lassù il pavimento era in tavolato di legno e c’erano mobili, accatastati nelle varie stanze alla bell'e meglio.
Il più misterioso ed interessante era l'armadio dove stavano nascoste le armi che lo zio, reduce dalla guerra in Albania, aveva portato con sé e che se ne stavano là a riposare.
Con cautela tiravamo fuori il moschetto, per osservarlo un poco, ma per riporlo subito dove doveva restare. C'era anche la nera rivoltella d'ordinanza col suo fodero. Tutte cose strane da toccare, soppesare e poi rimettere religiosamente tra la biancheria e le coperte dove dovevano continuare a celarsi.

Quelle soffitte erano frequentate anche dai miei cugini più piccoli e da mio fratello ed erano la “sede” della loro banda. Noi, più grandi eravamo quella dei "P” e loro quella dei "G”.
Le due bande non si facevano guerra, soltanto qualche dispettuccio e prese in giro.
La banda dei G, in un angolo di quella soffitta aveva sistemato un tavolino, attorno al quale giocare e parlare delle loro cosette. Nel bel mezzo del tavolo ci tenevano una scatola di latta (un tempo contenente dei biscotti) con dentro il loro “tesoro”.
Ho scordato che cosa fosse, ma mi ricordo benissimo con che cosa gliel’abbiamo sostituito.
E’ stato un vero scherzaccio e, quando se ne sono accorti, sono andati a disperarsi dalla zia, perché ci avevo messo dentro proprio la cosa peggiore del mondo, proprio quella a cui state pensando.
Cose da non fare!

Meglio e più intelligente era divertirsi a costruire e perfezionare una "teleferica”, che attraversasse il tetto in “coppi” e collegare così i locali di mio cugino con le stanze dove io e lui ci ritiravamo alla sera.
La teleferica I due appartamenti erano entrambi al secondo piano, ma per andare da uno all’altro c’erano due rampe di scale: una in discesa e l’altra in salita.
Con un po’ di corda, lanci mirati per farla arrivare dove occorreva ed un scatola da scarpe, ecco che il nostro marchingegno era presto fatto.

L'altra stazione della teleferica era la finestra nell'anticamera di mio cugino.
Se qualche sera salivo da lui, ci potevo trovare suo papà, lo zio Ettore, a cui piaceva starsene lì al fresco, magari in mutande, a suonare sulla sua fisarmonica rossa, lucida e brillante come la madreperla.
A volte mi invitava a provarla, gli ero simpatico o, almeno, lo sono stato finché “non si son persi” alcuni dei suoi francobolli.
La sua era una raccolta molto ben fornita, dato che aveva come risorsa le tantissime lettere dall’Italia e dall’estero che gli passavano sul tavolo nel suo lavoro di cancelliere in pretura. Che francobolli coloratissimi e che forme fuori del solito!

Una volta lo zio mi ha portato a vedere il suo ufficio nel Municipio e, in quell'occasione, mi ha fatto visitare anche i sotterranei con le prigioni di Chioggia. Conservo un ricordo molto triste, di un luogo buio, umido, con dei mesti poveracci dietro a sbarre ed inferriate.
Allo zio piaceva l’enigmistica ed è stato lui ad invogliarmi alle mie prime parole crociate.
Se mi trovava nella pausa del pomeriggio intento a svolgere i compiti di latino per le vacanze, ironizzava dicendomi:
– Latinorum: nos magnamos totos patatos ….

Prosa e Poesia

Pur se si è in vacanza non bisogna interrompere lo studio, specialmente se si ha qualche difficoltà ed anzi può esserci la buona occasione per rafforzarsi dove se ne ha più bisogno.
Quando ero alle medie un mio scoglio era l'italiano. In contraddizione con ciò che oggi mi piace tanto fare, allora svolgere un tema era contro tutti i miei gusti. Ero troppo schematico, sintetico e i miei lavori si concludevano in una paginetta e mezza, scarsa.

La mamma mi aveva trovato un aiuto, mandandomi a ripetizione di lettere da don Ernesto, un sacerdote già di una certa età, che era stato insegnante suo o delle zie.

Don Ernesto risiedeva nella canonica della chiesa dei Padri Filippini sul canal Vena . Pur se anziano, era una persona vivace e spiritosa.
Don Ernesto e l'ometto Una volta, ad esempio, mi ha preso in giro mandandomi a chiamare "l'ometto che stava nel corridoio", ed insistendo, perchè io non riuscivo a trovarlo.
Ma era uno scherzo: l'ometto altri non era che l'attaccapanni da terra, che se ne stava lì, ben ritto, a fianco della sua stanza.

Beh, devo dirvi che credo di aver tratto profitto dalle sue lezioni di italiano e latino.

Strano a dirsi: la prosa mi era indigesta ed invece mi dilettavo a scrivere rime e poesiole ironiche.
Specialmente filastrocche per prendere in giro questo o quello del parentado o dei conoscenti.

La scelta era vasta, ma il bersaglio più facile e ricorrente erano le “cugine Stilli”, le figlie del fratello della nonna.
Lui aveva messo al mondo una famiglia numerosa, di sei figli, di cui un solo maschio. Soltanto due delle femmine s’erano sposate e le altre s’erano adeguate a vivere in pace tra di loro, nella vecchia casa dei genitori.
Mio cugino Pino aveva avuto varie occasioni di andare a trovarle e mi riferiva le loro stranezze. Erano parsimoniose ed attente a ben conservare l’arredamento di famiglia ed a mantenere le loro vecchie abitudini.
Erano signorine particolari, di non grande bellezza, e per noi, era impossibile non prenderle in giro. Una nostra rima attaccava così: “Siamo le Stilli, giovani e forti, coi nasi storti …”.

Altre vittime facili erano le ex compagne delle nostre mamme, Rina e Vanda; specialmente quest’ultima che, pur essendo stata, a detta di tutti, “la più bella del paese”, non aveva trovato, ahimé, l'anima gemella.

Ma avevo estro e rime anche per le nostre imprese marinare.
Una faceva il verso all’Iliade, mutuando: “Cantami o diva, …”, ma l’ho smarrita e non la ricordo più davvero.

Notte a Pesca in Alto Mare

Non ci bastavano le sensazioni e le esperienze di pesca con la lenza e col tramaglio.
Si poteva provare qualcosa di più eccitante, ad esempio: imbarcarsi su un peschereccio per passare coi pescatori una notte in alto mare. L’abbiamo fatto un paio volte; la prima volta col mio papà.
Pesca con la saccaleva
Al giorno d’oggi queste escursioni sono gite normali, organizzate direttamente dalle agenzie turistiche, ma a quei tempi erano richieste insolite.
Ma nulla o quasi era impossibile a mia zia Luisa, mamma di Pino. Lei aveva mille risorse e con un pescatore che conosceva aveva contrattato il nostro imbarco per una cassa di vino: 12 bottiglie di Merlot come contropartita.

Così, verso metà pomeriggio siamo saliti su un peschereccio, ormeggiato nel canal Lombardo, che poco dopo ha acceso i motori, è uscito dal porto e si è diretto in mare aperto, verso il golfo di Trieste.

La pesca tipica di Chioggia è quella del pesce azzurro, con una rete chiamata “saccaleva”. Occorre il buio della notte ed un mare profondo: quello in mezzo all’Adriatico.

La zona la sceglie il capitano, che cerca quella più pescosa col radar-scandaglio.
Una volta trovato il posto giusto, vengono messe in mare le scialuppe, con potenti lampare, la cui luce attirerà istintivamente i pesci.
Occorre la giusta attesa, quindi il banco di pesci viene circondato con una rete rettangolare, con sugheri e piombi, che poi viene chiusa nella parte bassa e ritirata a bordo, lentamente con gli argani. I pesci si concentrano nell’ultimo tratto, che diventa un sacco brulicante di vita, da issare e aprire sul ponte, per fare la cernita delle qualità e la divisione nelle diverse cassette.

A volte basta una calata, a volte ne occorrono due e poi il rientro, più veloce possibile per arrivare in tempo ai magazzini ittici, dove all’alba si fa l’asta del pescato.

Esperienza da fare! Non solo per le manovre che ho descritto, ma anche per tutto ciò che il mare sa mostrarci di notte. Ho scoperto che tutte le forme di vita che vi stanno dentro sono fosforescenti e che nessun essere si riposa, in un continuo guizzare, brulicare di pesci, molluschi e crostacei luminosi.

La Sagra e i Fuochi

Durante l’estate a Chioggia si svolgevano, alle date ufficiali, due eventi particolari.

Uno era la ”Sagra del Pesce”.
Era una settimana durante la quale, alla sera, le famiglie o i gruppi di pescatori potevano allestire lungo il Corso del Popolo il loro punto di vendita e di assaggio con le prelibatezze offerte dal mare.
Ovvero, pesci presi da loro e poi cucinati secondo le ricette classiche, come: le sarde in “saore”, gli sgombri e le sogliole ai ferri, le seppioline in umido, le “moleche” fritte, la frittura mista e via cantando.

Gli stand erano molto semplici: qualche pezzo di rete, una barca tirata in secco in mezzo al Corso a fare da banco espositivo e, li accanto, il fornello o il braciere dove cucinare le specialità di quella “casa”.

Nonostante la nonna fosse una bravissima cuoca e non avesse nulla da imparare, mio papà si lasciava tentare e andava ad assaggiare questa o quella delle loro prelibatezze.

Il secondo evento estivo, tradizionale e di grande richiamo, erano i “Fuochi di Vigo”. Ovvero, i bellissimi fuochi d’artificio che la sera prima di ferragosto venivano accesi in laguna, sul molo che limita l’attracco dei vaporetti per Venezia, di fronte alla piazzetta Vigo.

Verso le 23 la gente cominciava ad abbandonare i tavolini dei bar del Corso e a far ressa in quella piazzetta. Anche noi ci andavamo, col giusto anticipo, per trovare un buon punto d’osservazione, anche se, in verità, poiché i fuochi s’accendono in mezzo al cielo, tutti i punti sono buoni per ammirarli.

I fuochi a Vigo Ci siamo andati ogni agosto, per diversi anni, e devo riconoscere che ogni volta lo spettacolo era più bello dei precedenti.
Tra una serie di fuochi e la successiva c’era una breve pausa.
Ogni fantasia di fuochi era più bella della precedente, come in una bella favola, dove ogni momento di vita è un crescendo di fascino ed incanto.

Al di là delle esplosioni di luci e di colori era divertente sentire le esclamazioni di stupore ed ammirazione dei presenti, perché tutt'intorno era un coro di:
– Oh …ohhh.

Lo spettacolo durava una mezz’oretta e si concludeva con i canonici tre scoppi nel buio assoluto, distanziati di due, tre secondi uno dall’altro ed un ultimo boato, più atteso, più forte e più assordante che mai:

– Bumm! ... bummm!! ... ... ... buuummm!!!
– Ooohhhh!!!!



Buuummm!



G.A.

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