Vacanze in Barca

Vacanze in Barca

Ricordi d'infanzia - n.8

Da metà giugno a metà settembre sono davvero tante le settimane! Stare sempre e soltanto in spiaggia avrebbe voluto dire per noi ragazzi farne indigestione.
Ben venivano le alternative e tra queste avevamo: andare in bicicletta in campagna o andare in barca per la laguna.


In barca La prima barca dei miei cugini è stata una scialuppa da pesca, robusta, ma molto pesante da manovrare.
Normalmente la si usava a remi, ma aveva anche l’albero con randa e fiocco. Talvolta provavamo ad andare a vela, ma non essendo dotata di una vera chiglia-deriva, “scarrocciava” (non teneva la direzione).
Nonostante i suoi difetti, la ricordo con piacere, perchè con lei ho fatto il mio battesimo di marinaio.

Tutto molto meglio, qualche anno dopo, con la “verigola”, la barca con cui i miei cugini l’hanno sostituita.

La verigola è una barca tipica di Chioggia: molto agile, di circa sei metri, con albero a prua e deriva mobile. Ci andavamo a remi, a motore o “bolinando” (cioè col vento di lato).
La barca ci serviva sia per i nostri giretti in laguna, sia per le nostre battute di pesca.

Quanto ai giretti, di posti dove andare ce n’erano parecchi.

Spesso risalivamo il canale del porto fino alle sue bocche, per la gioia di navigare in acque più aperte e profonde e manovrare con la brezza diretta dal mare.

Ottagono Altre volte siamo andati all’Ottagono, un isolotto lagunare che esiste tutt’oggi.
Si tratta di uno di quattro fortini simili, costruiti nel '500 dalla Repubblica Veneta per difendersi dai turchi e in seguito usati anche durante la seconda guerra mondiale.
L’Ottagono era un fortino abbandonato, in rossi mattoni perfettamente ottagonale ed era un’attrazione troppo forte per non andarci. L'approdo era possibile e c'era un varco per entrare e visitare i suoi camminamenti con le postazioni dove un tempo stavano i cannoni.
Ci spingeva là il desiderio d'avventura e, nonostante lo stato d’abbandono, le erbacce e il degrado, era grande la nostra soddisfazione di esploratori.
Però, in confidenza: quel fortino si era ridotto, più o meno, al WC di chi andava a pesca da quelle parti.

Spesso la nostra destinazione era lo specchio di laguna di fronte al Ca'Roman, per far là le nostre immersioni con maschere e pinne, perchè l'acqua era pulita e limpida. Potevamo vedere bene fino a tre, quattro metri di profondità le praterie di alghe, i brevi spazi sabbiosi, il brulicare di pesci, granchi e altri molluschi.
Per un certo periodo io e mio cugino ci siamo tuffati là alla ricerca delle "Pinne Nobilis", una varietà di conchiglie triangolari di 20 cm e più, che vivono affondate quasi completamente nella sabbia.
Pinne Nobilis Avevamo letto che in quelle conchiglie qualcuno ci aveva trovato delle perle. Noi ne abbiamo tirate su davvero parecchie e poi aperte senza trovarci mai nulla, al di fuori della loro bella livrea interna in luccicante madreperla.

Ed ora vi racconto le nostre battute di pesca e per incominciare: quelle con le lenze.

Le anguille in Veneto si chiamano "bisatti".
Se volevamo andare a pescarli, dovevamo partire all’alba e non ad un'ora qualunque, ma ben precisa. Infatti, occorreva che la marea fosse bassa, abbastanza da far emergere in laguna qualche secca, dove andare a cercare le esche.
Le maree sono mutevoli di giorno in giorno, allora non c'erano i bollettini su internet, così ci si informava degli orari da qualche pescatore.

Per quel tipo di pesca non ci occorrevano attrezzature ingombranti da portare in barca. Solo poche cose: remi, motore, tanica col carburante e qualche altro attrezzo da prendere dal magazzino, affittato nel pressi di dove si ormeggiava la barca: il canal Vena o Lombardo.
Pur se un po' assonnati, ci si dava da fare per caricare per bene ogni cosa e partire senza indugi.

Essendo di fretta, si andava a motore.
Un'area buona dove cercare le esche erano le acque basse di fronte al forte San Felice. Infatti, là potevamo trovare le "corbole", una specie di gamberetti non buoni da mangiare, ma eccellenti come esca per le anguille.
Però, oltre alla bassa marea, ci voleva la tecnica giusta.

Le corbole Questi piccoli crostacei, quando restano all'asciutto si annidano nella sabbia nei loro profondi cunicoli, dove rimane sempre un po' d'acqua. Ma quei fori di ingresso restano ben visibili quando il fondo emerge.
Per stanare le corbole noi usavamo un grosso barattolo, tipo quelli per le pitture murali vendute nei colorifici. Bastava appoggiare il barattolo, capovolto, dove vedevamo molti di quei fori e premerci sopra di scatto e con forza, col piede o salendoci sopra. Creavamo così una pompa che, spingendo aria nelle tane, faceva uscire dai buchi tutt'intorno schizzi d'acqua e, insieme, alcuni di quei gamberetti.

Fatta la giusta provvista di esche si ripartiva a motore verso le “valli” più interne (cioè le conche e lagune più piccole). Mio cugino conosceva una buona zona dove fermare la nostra barca. Gettavamo l’ancora (o una pietra con una corda quando l’abbiamo persa) e preparavamo le “togne”.

Una togna altro non è che una lenza di nylon con un piombo al termine, abbastanza lunga, da srotolare e arrotolare sulla sua tavoletta. Poco prima del piombo ci sono due o tre ami attaccati a corti pezzetti di filo.
In ogni amo innescavamo una corbola, meglio se ancora viva, e calavamo le togne, più di una. Dal nostro capo avvolgevamo i fili a qualche sasso piatto, posato sul fondo della barca.
Non c'era che da aspettare che avvenisse uno strappo e nell'attesa ci raccontavamo le esperienze dei mesi trascorsi separatamente o ascoltavamo la radiolina.

Quando ad una togna s’attaccava qualcosa, dovevamo agire in fretta e con decisione, dandoci una mano, l’un l’altro, per evitare che l’anguilla si liberasse.
Dopo averla tirata in barca, dovevamo afferrarla con un pezzo di tela di sacco, per vincere il suo viscidume, liberarla dall’amo e metterla nel nostro cesto.
Non mi pare che si sia mai riusciti a prenderne più di due o tre in una mattinata, però era lo stesso un bel divertimento.

Burrasca Una volta che eravamo appunto impegnati in questa pesca, s’è scatenato un fortunale inatteso: cielo nerissimo, nuvole basse e vento forte. Recuperate in fretta le togne, salpata l’ancora, ci siamo diretti remando a tutta forza, verso un isolotto distante solo cento metri, però contro vento (il motore non s’avviava). Ma s’è aggiunta subito una pioggia così forte che la nebbia prodotta dagli schizzi sull’acqua ci nascondeva ogni cosa tutt’intorno, compreso il posto che volevamo raggiungere.
Senza dircelo l’un l’altro, d’istinto, siamo saltati fuori dalla barca ed abbiamo preso a spingerla nuotando, finché abbiamo raggiunto l’acqua bassa e il fondo sicuro sotto ai piedi.
Ci siamo sentiti come se ci fossimo salvati da un vero naufragio.
In quel canneto abbiamo atteso la fine della buriana, per poter poi prendere senza pericoli la direzione di casa.

C’erano anche altri tipi di pesca da fare in barca con le lenze, di volta in volta nei posti più adatti.
Ad esempio: le aguglie, che chiamavamo ”bisigole”: sono pesci non particolarmente pregiati, ma divertenti da catturare; sembrano piccoli pesci spada, sono veloci e scattanti.
Un posto adatto era il tratto del porto tra Pellestrina e Chioggia, dato che le aguglie amano le acque profonde.
Una buona esca per le aguglie è la sardina da mettere a pezzetti sull’amo, ma ce ne bastava soltanto una, tanto per cominciare. Infatti, le aguglie sono pesci cannibali, così, dopo avere catturata la prima, la si faceva a pezzetti per usarla come esca, ancor più soda e valida della sardina, per prendere le sue sorelle.

Un’altra pesca con la lenza, completamente diversa e curiosa, era quella delle seppie.
Non servivano esche, al loro posto si metteva qualcosa di luccicante, tipo: un pezzetto di specchio o di metallo brillante che le attirasse. Le seppie vi si attaccavano senza essere prese all’amo, perciò si doveva tirare su con calma la lenza e poi usare la “vuolega” (il retino) appena affioravano in superficie.

Pescare in barca con le reti era tutta un'altra cosa.
Che bella sorpresa quell’estate, quando i miei cugini hanno comperato il “tramaglio”.
Vi spiego: il tramaglio (o tremaglio) è una rete costituita da tre strati, di cui quello centrale è floscio e a maglie più strette. I pesci che attraversano un rete esterna restano imprigionati in quella interna, formando un sacchetto sul lato opposto a quello d'entrata.
Una volta calato, il tramaglio viene tenuto sul fondo dai piombi e mantenuto verticale dai galleggianti. Ne avevamo sei, sette pezzi, che congiunti assieme potevano coprire una cinquantina di metri.
Pesca col tramaglio A rigore avremmo dovuto far tingere la nostra rete, così avrebbe meglio ingannato i pesci, ma non l’abbiamo fatto.

Per pescare col tramaglio andavamo in laguna di fronte alla spiaggetta del Ca’Roman. Là trovavamo specialmente: barboni (triglie), orate, luserne (gallinelle) e, talvolta, seppie e canocchie.

Nel tratto scelto calavamo la rete, segnalandola coi due galleggianti agli estremi, poi ci spostavamo verso la spiaggia. Occorreva lasciar passare più o meno un’oretta, allora ci dedicavamo ad altre cose, in barca o sulla riva.

La pesca andava quasi sempre bene, con vari pesci rimasti nella nostra rete. Che soddisfazione farla risalire, trovarli, liberarli e metterli nel secchio!
Però il recupero del tramaglio non era cosa da poco. Oltre a sciogliere i pesci dalla rete, bisognava togliere le tante alghe rimaste impigliate, ributtare in acqua i granchi e ridisporre per bene la rete sul fondo della barca, per poter fare subito un'altra calata.

Una calata tirava l'altra e il pomeriggio diventava presto sera, poi tramonto ed era tempo di ritornare.
Durante il rientro avremmo potuto fare più bella la nostra pesca, perchè ci avevano insegnato che, per mantenere le triglie ben rosse, bisognava squamarle subito, appena pescate.
Ma non l'abbiamo fatto quasi mai, tanto quella sera stessa la nonna ce le avrebbe cucinate fritte o arrosto.
E che buone!

Ditemi un po' voi come potrei dimenticare esperienze come queste!





Tramonto in laguna



G.A.

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