Vacanze in Spiaggia

Vacanze in Spiaggia

Ricordi d'infanzia - n.7

Queste giornate, di sosta forzata tra le mura di casa a causa del COVID-19, si prestano anche per riordinare e mettere per iscritto i bei ricordi lontani.


Ogni estate, appena terminava la scuola, partivamo da Milano e andavamo a Chioggia, per trascorrere là al mare i mesi di vacanza. Partivamo in quattro: mia mamma, mia sorella Gabriella (due anni più di me), io e mio fratello Carlo (sette anni più giovane). Il papà restava a Milano a lavorare e ci raggiungeva soltanto per pochi giorni a ferragosto.
A Chioggia abitavano i miei nonni materni e i miei cugini, più giovani di me: Pino, Gianni e Ludovico.

Nei primi anni del dopoguerra, dovendo fare un po' d'economia, abbiamo rinunciato alla spiaggia. S’andava invece a trascorrere la mattina o il pomeriggio su un isolotto, situato tra la laguna ed il canale Lombardo. Là c'era una specie di fattoria con orti ed un grande prato ed era come stare in campagna.

Il traghetto della signorina Baldo Quell’isolotto era privato, di proprietà di una tale "signorina Baldo", una benefattrice che gestiva là il suo centro di aiuto per ragazzini orfani o abbandonati.
Per una quota modesta ci permetteva di usufruire di quello spazio verde.
Per arrivarci, dalla riva cittadina del canale chiamavamo a gran voce “signorina Baldo!” e pazientavamo un poco, finché lei o qualcuno dei suoi ragazzi più grandi, arrivava con la barchetta a remi a prenderci e a traghettarci sull'altra sponda.
Una volta arrivati là, ci si metteva in costume; facevamo liberamente i nostri giochi ed anche il bagno dal lato dove l'isolotto guarda la laguna: da quella parte l'acqua era sempre limpida e pulita.

Era bello villeggiare anche in quel modo, però, quando abbiamo potuto permetterci la vera spiaggia, è stata tutta un'altra cosa.

La casa dei nonni era a Chioggia, ma la spiaggia stava a Sottomarina, distante almeno un paio di chilometri, di là dal ponte translagunare. La si poteva raggiungere a piedi, in bici o in corriera.

Nei primi anni (‘46-47) la corriera di servizio era un vero veicolo da museo, col motore nel cofano allungato e il radiatore fumante. Se capitava qualche difficoltà di partenza, si aspettava che l’autista scendesse e avviasse il motore con la manovella.
Appena il comune ha potuto permetterselo ha istituito un più serio servizio per la spiaggia, con due pullman moderni.
Ma noi, allora già grandicelli, preferivamo la bicicletta.

A Sottomarina c’erano due o tre stabilimenti balneari: il nostro si chiamava Nettuno. Bagni Nettuno
Aveva un vasto terrazzo che si spingeva fin quasi sul mare e, più arretrato, un grande capannone di legno verde e tetto curvo, forse risalente addirittura agli anni '20.
Quando è stato rifatto più grande e in muratura l’hanno rinominato: Astoria.

Giunti col pullman al capolinea o in bicicletta alla fine della strada asfaltata, bisognava percorrere ancora un bel tratto nella sabbia. Nelle ore fresche del mattino non era faticoso, ma non così sotto il sole cocente di mezzogiorno, quando mia mamma e mia zia Luisa arrivavano, cariche delle borse con dentro il pranzo, preparato a casa per tutti noi otto, quanti eravamo.

Lo stabilimento aveva tre, quattro file di cabine, che venivano montate all'inizio dell'estate e smontate e riportate nei magazzini al termine della stagione.
Noi le chiamavamo le "capanne" ed erano tutte in vero legno, abbastanza capienti: 4 per 3 metri almeno. Quelle in prima fila, come la nostra, disponevano anche di un terrazzino con la tenda per ripararsi dal sole.

Chi, tra noi cugini, arrivava là per primo doveva chiamare il bagnino: Pasquale. Occorreva gridare un bel po’, perché o era distante o faceva finta di non sentire.
Quando, finalmente, ci apriva la cabina, bisognava innanzitutto fare spazio all’interno, spostando nel terrazzino il tavolo e le sedie che usavamo per il pranzo. Così facendo si poteva arrivare alla parete di fondo, dove, dietro alla tenda ci cambiavamo e ci mettevamo in costume.
Chi arrivava per primo poteva preparare degli scherzi per i fratelli che sarebbero giunti poco dopo. Il più ovvio era il gavettone d’acqua in bilico all’apertura della porta, però era così probabile che s’era presto imparato a schivalo.

Era poi il momento di allestire il nostro spazio gioco-relax, a qualche decina di metri davanti alla cabina, portandovi i nostri ombrelloni e le sedie a sdraio.
In quella spiaggia, vastissima, gli ombrelloni erano sempre pochi e sparpagliati, così da qualunque punto ci si trovasse si poteva sempre scorgere il mare.

Lo si poteva vedere anche al sabato e alla domenica, quando i bagnanti erano di più, perché arrivavano i paesani e i contadini dal circondario, per trascorrere una giornata di mare e ripartirsene alla sera.
Mi sembravano molto buffi, perché c’era chi, oltre all'ombrellone, si portava il parapioggia nero per meglio ripararsi. E poi, le loro signore, spesso ben robuste, non si mettevano in costume, ma se ne restavano lì in spiaggia nella loro sottoveste in finta-seta nera, lucida. Poverine, anche se si ungevano e s’infarinavano con non so che cosa, giunta la sera, erano rosse come gamberi da far piangere solo a guardarle.

Mia sorella Gabriella, già ragazzina, se ne stava quasi sempre presso le sue amiche. Noi maschi facevano i nostri giochi sotto l'ombrellone o in riva al mare, ma separatamente, perché io e Pino, i “P”, eravamo più grandi e con gusti diversi dai più piccoli, i “G”.

Quanti castelli abbiamo fatto con la sabbia! Duomo di sabbia
In riva al mare c’era quella umida e adatta alle costruzioni più alte. E poi, sgocciolando con cura acqua e sabbia, si potevano aggiungere guglie e pinnacoli, che noi chiamavamo "i pirulini". In questo modo ho realizzato anche il mio Duomo di Milano.

Bello anche scavare canaletti per far arrivare l’acqua alle buche più lontane dalla riva, dove mettevamo i granchi e i pesciolini appena catturati. Divertente poi proteggere tutto con sbarramenti di sabbia contro l'arrivo dell'alta marea.

Quante piste abbiamo fatto per giocarci con le palline di terracotta o di vetro!
Più erano lunghe, più erano belle: con salite, ponti agli incroci e curve paraboliche per non uscire dal tracciato anche se si tirava forte.
Talvolta abbiamo fatto il “vulcano”, cioè un monticello scavato alla base e un foro in cima, per l’uscita del fumo, che poi provavamo, accendendoci dentro dei fogli di giornale.

Restando, invece, presso l’ombrellone si poteva provare a scavare una buca fino a trovare l'acqua, con tenacia e buon lavoro, trattandosi di quasi un metro di profondità.
Quella buca, una volta finita, poteva diventare un trabocchetto, da coprire con un foglio di giornale ed un po' di sabbia asciutta per mimetizzarla. Certamente erano “cose da non fare”, ma non mi ricordo che si sia mai fatto male nessuno.

Un bel passatempo era quello degli aquiloni. Ce li costruivamo noi, col telaio in cannucce prese in una radura umida al confine degli stabilimenti e con colla di farina. I primi erano in carta di giornale ed era difficile farli volare; allora abbiamo comperato la carta giusta, trasparente e colorata. Per la coda, più lunga possibile, c'erano varie alternative, comunque sempre con anelli di carta.
Se c'era abbastanza vento e non c'erano errori di equilibratura, bastava una bella corsetta perchè il nostro aquilone s'innalzasse quanto bastava per trovare la brezza giusta senza rischio di discesa. Allora era il momento dei "telegrammi", facendo scorrere dei foglietti di carta lungo il filo, su, su, fino a raggiungere l'aquilone.

Con tutto quel tempo sotto al sole, era scontato che i primi giorni di spiaggia procurassero a me, milanese, una bella scottatura. Talvolta pure con un po’ di febbre. Ma poi il male passava, la mia pelle bianca prendeva una leggera tintarella ed allora non era più un problema tornare a giocare sotto il sole.

Dopo pranzo e nelle ore più calde del pomeriggio ci si dedicava alle letture sotto l'ombrellone. Ci portavamo da casa dei libri gialli e di avventura, presi nelle soffitte dei nonni o dalle raccolte di mio zio Ettore.
Un po’ di tempo del dopopranzo andava dedicato anche ai compiti delle vacanze.

Al pomeriggio poteva capitare la visita di qualche altro nostro parente o conoscente.
Poteva essere mio zio Vittorio, fratello di mia mamma e di mia zia. Ed era un classico che lui volesse andare a farsi una remata in "moscone" (il pattino).
Mio zio Gino, cognato di mia mamma, capitava lì solo una o due volte nell’intera stagione, giusto per farsi una nuova foto a fianco di sua moglie, mia zia Beppina. Lei nascondeva il costume sotto a una vestaglietta di cotone in fantasia, ma lui, imperturbabilmente si metteva in pigiama a righe bianche e azzurre, maniche lunghe e calzoni lunghi, com’era abitudine agli inizi del ‘900.

Sul terrazzo dello stabilimento balneare c’era un servizio bar, dove in alcune sere si ballava oppure veniva allestito qualche spettacolino. Da là, durante il giorno, gli altoparlanti trasmettevano musiche e canzonette e, agli orari giusti, le cronache del giro d’Italia e del Tour.
Suoni e notizie arrivavano fin sotto agli ombrelloni, facendo compagnia a chi voleva oziare ascoltandoli.

A mezzogiorno e non prima delle quattro (ordini superiori, per non bloccare la digestione) c’era il permesso per fare il bagno in mare.
Ci bastava un tuffo per prendere confidenza con la temperatura dell'acqua ed iniziare i divertimenti: schizzarsi l'acqua, tirarsi la sabbia, esplorare il fondo e cercare molluschi e conchiglie.
E poi, ovviamente, nuotare e nuotare: rana, dorso, stile libero, ma sempre con "tecniche autodidattiche". Ho corretto i miei errori solo quando, da pensionato, ho incominciato ad andare in piscina.
Però eravamo egualmente capaci di lunghe nuotate e, alternando i nostri stili, arrivavamo fino alle boe o ai cartelli più lontani, dove raramente giungeva qualche altro coraggioso.

Erano bagni bellissimi, ma la variante ancor più divertente era quando c'era la bandierina rossa, segnale di mare mosso.
Più era mosso, più grandi e travolgenti erano le onde e maggiore il divertimento: attendere l'arrivo dell'onda più alta, per tuffarcisi dentro "di testa", giusto un attimo prima che si rompesse, infrangendosi.

Da più grandicelli abbiamo usato anche la maschera e le pinne, ma non era quello il posto più adatto.
C'è stato un anno in cui abbiamo potuto divertirci anche con un materassino. Era una vera novità: in Italia non s'erano ancora diffusi. Mia zia l'aveva comperato da una famiglia tedesca che, terminata la villeggiatura ce l'aveva ceduto per poche lire.

I nostri bagni non finivano se non quando ci accorgevamo che la pelle delle dita era diventata tutta raggrinzita.
Allora si correva a fare la doccia.
Ce n'erano tre o quattro presso il casotto dei WC, posto dietro all'ultima fila di capanne. L'acqua era gelata ed occorreva abituarsi alla sua temperatura, ma poi, anche lì, c'erano mille spunti per giochi e scherzetti tra di noi.

Tornando, gocciolanti, verso la nostra cabina si passava accanto alla "zona delle sabbiature".
Infatti là, più appartati, tra una fila e l'altra di capanne, alcuni mantenevano il proprio prezioso cumulo di sabbia. Ogni mattina ciascuno di loro, con l’apposito attrezzo di legno, apriva la propria montagnola dandole la forma di un canotto di sabbia e tornava poi, spesso, a girarla e a rivoltarla perché a mezzogiorno fosse ben cocente, sopra e sotto.
Poveretti! Quando all'ora giusta si facevano ricoprire, lasciando fuori soltanto la testa, avrei pianto io per loro! Dovevano resistere e attendere un quarto d‘ora o più.
Quando ne uscivano erano completamente coperti di sabbia bagnata e, per consolarsi della tortura, si dicevano l’un l’altro: “è tutta salute”!

Allora non c'erano i vucumprà a girare insistenti tra gli ombrelloni.
Al pomeriggio passava sulla riva soltanto qualche contadino, portandosi a spalla un'asta di legno con in bilico le ceste di uva, perseghi (le pesche) e patate americane.
Verso sera arrivava poi il Marsià col suo vaso di vetro pieno di croccanti, che lui promuoveva gridando: "a dieci e a venti". Rafforzando ogni tanto il marketing con: "piansè putei che la mama la ve dà i schei".

Verso metà agosto poteva capitare che arrivasse un temporale col vento così forte da sollevare turbini di sabbia e far volar via qualche ombrellone. Allora, in fretta e furia, tutti scappavano, tranne noi però. Noi ce ne restavamo là, chiusi nella nostra cabina, ad ascoltare i fischi del vento, giocando a carte in attesa che la buriana terminasse.
Quando alla fine si calmava, ci trovavamo padroni incontrastati di tutta la spiaggia.
Spesso, dopo quelle burrasche, arrivavano le barche dei pescatori che recupervano la rete chiudendo lo strascico sulla riva della spiaggia.
Che spettacolo quei pesci saltellanti di tutti i tipi e dimensioni!
Noi ci prendevamo i piccolini, perché mia zia Luisa ce ne facesse al volo una frittura sul fornello a gas della capanna.

Ma il maltempo era un’occasione rara e le giornate scorrevano lunghe e piene di sole. I trabucchi alla diga
Se, nel pomeriggio, ne avevamo voglia, si poteva fare una passeggiata lungo la riva del mare. Potevamo scegliere: verso la diga o verso le foci del Brenta?
Nel primo caso si costeggiavano due stabilimenti balneari e si incrociavano altre persone sulla riva o in passeggiata.
Giunti alla diga, potevamo salirci e percorrerla fino alla punta, guardando chi pescava con la canna, chi raccoglieva le cozze dagli scogli e gli strani bilancioni da pesca, appesi ai trabucchi. Talvolta arrivavamo fino alla punta, per fare poi dietrofront, girando attorno alla stazione di rilevazione delle maree.

In alternativa, c’era la passeggiata verso la foce del Brenta. Da quella parte si restava presto soli, unici, a camminare lungo la riva per un paio di chilometri. Verso la foce del Brenta
La spiaggia era più stretta e limitata da una duna di sabbia, oltre la quale s’estendevano i campi di ortaggi: carote, melanzane, angurie, ecc. Non c’era anima viva, era forte la tentazione di approfittarne, ma ci avevan detto che se i "marinanti" (i contadini) ci vedevano ci avrebbero conciati per le feste.

Se la marea era bassa era bello attraversare le “secche”, cioè gli isolotti emersi qua e là e le pozze, dove cercare granchi, “marsioni” e altri pesciolini. Era facile catturare le piccole “passere di mare”, perché per sfuggirci cercavano l’ombra dei nostri piedi e vi s’ìnfilavano sotto.
Alla foce del fiume, dove l’acqua era più dolce, si potevano prendere le “schile”: piccoli gamberetti verdi, buoni per la frittura. Le sentivi numerose "beccarti" le gambe ed allora, facendo la conca con le mani, si riusciva a tirarne su dall’acqua due o tre in un colpo solo.

Quando arrivava l'imbrunire e alcuni già se ne andavano, gli spazi più grandi in riva al mare diventavano i campi per il gioco dei tamburelli.
Pure noi ci provavamo, anche se da dilettanti. Nulla cioè al confronto delle coppie che invece giocavano con palline pesanti e alla distanza di varie decine di metri.
A quell'ora della sera era tutto un risuonare dei colpi di quei rimbalzi.

Noi ci fermavamo in spiaggia fin dopo l'imbrunire. Infatti, facevamo là non solo il pranzo, ma anche la cena.
Però era un mangiare semplice, con una tazza di latte come piatto forte.
All'ora giusta arrivava dalla campagna il nostro lattaio col bidone d'alluminio pieno di latte appena munto.
Lo si scaldava sul fornelletto a gas che avevamo in cabina, aggiungevamo qualche biscotto, pane, uova o formaggio e tornavamo a Chioggia pronti per gli ultimi giochi e per la nanna!

Bellissime quelle mie vacanze! Non parlatemi di Maldive o Bahamas!





Sera in spiaggia



G.A.

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