Una Notte a Prosecco

Ricordi e frammenti di vita militare

Col passare degli anni l'ovatta del tempo annebbia ed addolcisce ogni cosa.
Allora, anche le esperienze meno belle possono essere simpatiche da ricordare e da raccontare.


Terminati gli studi, è arrivato anche per me il momento di andare a prestare il sevizio militare, che avevo sino ad allora rinviato. Era il 1966, a quei tempi la leva era obbligatoria.
Avrei dovuto fare il corso Allievi Ufficiali, però, non volendo aspettare troppo, ho ripiegato su quello per Sottoufficiali.

La prima destinazione, il CAR, è stata la scuola di Artiglieria Antiaerea di Sabaudia.
L'addestramento era abbastanza duro ed io, poco abituato agli sforzi fisici e alla vita sportiva all'aria aperta, mi sono preso una broncopolmonite.
Da Sabaudia sono passato alla scuola della Cecchignola a Roma, ma dopo una visita all'ospedale militare del Celio, sono stato mandato in licenza per alcune settimane, per guarire dai postumi della broncopolmonite. Così ho perso il mio corso per Sottufficiali.

Il servizio militare l'ho ripreso nella "naja vulgaris", col grado di Caporale Maggiore (non so se per anzianità o ad honorem) non più nell'Antiaerea, ma nell'Artiglieria da Campagna.
La mia nuova tappa è stata Trieste ed ero contento di tale destinazione, perché abbastanza vicina a Venezia, dove avevo la mia fidanzata.

In caserma mi sono ambientato in fretta coi nuovi compagni. Nessuno di loro aveva mai rinviato il servizio militare ed io, con sei o sette anni di più, mi sentivo come un fratello maggiore, se non il loro papà.
In camerata Ogni camerata poteva ospitare una ventina di brande su due livelli; i più anziani potevano scegliersi il posto migliore ed i pivelli dovevano accontentarsi di quello che restava.

In camerata ci si poteva ritirare solo alla sera, prima del “silenzio”. Allora qualcuno ascoltava la radiolina, un altro raccontava le sue avventure amorose, qualche altro leggeva.
Era anche il momento per chiedere agli "sciacquini" (ovvero agli attendenti), il favore di qualche acquisto in città. Ce n'erano un paio con noi, che uscivano di caserma ogni mattina per andare a fare i lavori domestici a casa di qualche alto ufficiale.
In camerata c’erano anche due o tre che passavano il tempo ricamando degli impossibili centrini colorati da regalare a chissà chi. Ve li sareste mai immaginati voi dei soldati che lavorano all'uncinetto?
C'era poi ogni tanto qualcuno che con l’accendino faceva safari contro le cimici della sua branda.

Col senno di poi, quel periodo è stato per me un’occasione rara per stare a contatto con persone provenienti dalle regioni più disparate, di ogni cultura e ceto sociale. Ad esempio: come avrei mai potuto fraternizzare con un pastore lucano, vissuto soltanto sulla sua montagna, che conosceva sì e no un centinaio di parole?

Terminati gli appelli e le marce obbligatorie del mattino, dato che io sapevo disegnare e battere a macchina, ero stato distaccato all'ufficio OATIO (sigla che starebbe a significare: Ordinamento Addestramento Tiro Informazioni Operazioni).
In quell'ufficio stavo con altri tre commilitoni: due milanesi e un comasco.
Ci coordinava il sergente RG ed a capo c'era il colonnello PZ.
Il nostro lavoro d'ufficio era preparare mappe, cartine e relazioni sulle prossime manovre ed esercitazioni militari, per farne poi tante copie da distribuire ai vari comandi.
Per i testi si usava il ciclostile; le cartine si copiavano con una macchina offset che esigeva però di rendere prima trasparente l'originale, imbevendolo e lucidandolo con olio di lino o paraffina.

In caserma Il sergente RG, sottufficiale di carriera, ci istruiva e controllava le nostre attività. Gli ero simpatico e mi portava talvolta con lui in città, in AR (la jeep militare AR76) per l'acquisto di nuovo materiale per l'ufficio.
Gli piaceva parlarmi della sua vita e dei suoi progetti. Lui, che veniva da Napoli, mi decantava la sua città, molto diversa da Trieste. In segno di amicizia e per avere la mia ammirazione, mi ha portato talvolta a vedere gli oggetti personali, che conservava nella sua camera: erano bellissimi modellini di trenini costruiti per hobby con grande pazienza ed abilità.

Conservo un buon ricordo anche del colonnello PZ.
Pure lui mi aveva preso in stima e simpatia, forse perché, a differenza dei suoi figlioli ero riuscito a laurearmi.
Una domenica, con altri compagni, sono andato a casa sua per portargli su, fino al quarto piano, dei sacchi di carbone, comperato a buon prezzo, là dove il maresciallo degli acquisti di caserma gli aveva suggerito, con trasporto e facchinaggio gratis (anche se sei un colonnello, non è poi che guadagni un granchè ...).
Se poteva il colonnello PZ mi aiutava firmandomi qualche licenza per il weekend, per andare da Trieste a Mestre a trovare la fidanzata. Era una scorciatoia irregolare, perché a rigore le licenze ed i permessi avrei dovuto chiederli al mio diretto superiore, il capitano DC.

Pure il mio capitano ed il tenente GD mi apprezzavano. Anche perché per loro facevo di tanto in tanto qualche lavoretto extra, come, ad esempio, dipingere il nuovo stemma in ferro battuto per il circolo ufficiali o disegnare, per il loro comando, un grande poster col panorama dell'area delle manovre sull'altipiano sopra Trieste, in stile battaglie napoleoniche.

Tuttavia i lavori in ufficio e questo o quel lavoretto, non mi dispensavano dai normali servizi di caserma, dai più ai meno gradevoli.
Tra quelli semplici c'era la sovrintendenza alle cucine. Allora dovevo ad esempio: controllare la pulizia dei fuochi e dei recipienti, il rispetto degli orari del rancio, la preparazione dell' "assaggio" da portare in ufficio al Colonnello Comandante.

Pure facile e divertente era partecipare al servizio di Ronda, che, durante l’orario di libera uscita nei giorni festivi, girava per le vie centrali di Trieste, controllando che i soldati non creassero disordine o facessero scorrettezze.
Nella Ronda si stava in tre: in mezzo un sergente ed ai lati due sodati di buona corporatura (io uno di loro). Si andava con indosso gli anfibi d'ordinanza e passo militaresco, cadenzato, per le strade principali del passeggio; si entrava ed usciva dove i militari spendevano la "decade": nei bar, nei locali di divertimento e nei cinematografi.

Ben più impegnativi erano i servizi di guardia.
A me, come graduato, spettava di fare il Capoposto, cioè il capo del gruppetto di dieci o più sentinelle, che si alternavano nel servizio al Corpo di Guardia all'ingresso della caserma. Il compito era: controllarle, comandare i cambi agli orari stabiliti di giorno e di notte, chiamare fuori tutto il picchetto d'onore per il "presentat-arm!" di saluto ai più alti ufficiali.
Presso il Corpo di Guardia c'erano anche le Camere di Punizione, CPR (di Rigore) e CPS (Semplice); in quest'ultima il "punito" veniva solo alla sera, per dormire. Ma era un eufemismo, dato che la branda era soltanto un tavolaccio costruito in pendenza, appositamente per accrescere il disagio e la punizione.

Mi è capitato un paio di volte di fare il Capoposto all’ingresso della nostra caserma. Ma qui vi voglio raccontare l’esperienza di quando sono stato comandato di farlo all’aeroporto militare di Prosecco, su, sull’altipiano carsico sopra Trieste.

Si trattava in verità di un piccolo aeroporto per un paio di aeroplanini da ricognizione, abbastanza datati, ma usati ancora da alcune unità militari di stanza a Trieste.
Vicino a Prosecco passava il confine con l'attuale ex Jugoslavia e dall’altra parte c'erano il comunismo ed i titini: quindi ci si spiava a vicenda.
Le missioni avvenivano di giorno; i piloti, i meccanici e gli altri addetti smontavano alla sera e se ne tornavano nelle rispettive unità. Al loro posto, arrivavano a turno, dalle varie caserme di Trieste i soldati, comandati per il servizio di guardia serale e notturno.
Quella volta toccava a noi ed io dovevo fare il Capoposto con una ventina di miei compagni come sentinelle.

Anche in piena primavera, lassù, sull'altipiano, di notte fa veramente freddo. Così, alla partenza ci hanno dotati di giacconi ben foderati di pelo e piccoli generi addizionali di conforto (le bustine di grappa della "razione K").
Caricati uomini, armi e bagagli su un camion CL (autocarro carico leggero ACL75), in circa un’oretta siamo arrivati su, sull’altopiano, all’aeroporto.
Oltre al campo di volo e all'hangar-officina c’erano là: una piccola costruzione ed un capanno in lamiera per il corpo di guardia. Lì dentro stavano le nostre brande, un grossa stufa ed una catasta di legna da ardere.
Dopo poche spiegazioni e formalità, il personale presente ci ha lasciati per tornarsene in città.

Ho accompagnato le tre guardie del primo turno alle loro garitte, dislocate agli angoli del campo di volo e, dopo aver fatto le raccomandazioni d’obbligo: “… non t’addormentare; guarda che passo a controllarti …”, sono tornato alla baracca di guardia.
Là dentro, avevano rinvigorito per bene la stufa e tutti s’erano già accomodati nelle brande.
Prima o poi li avrei svegliati per i loro turni che, se non ricordo male, erano programmati ogni due ore e mezza o tre.
Io non potevo riposarmi perché dovevo fare le ispezioni.

Quando, dopo un’oretta, ho fatto il primo giro di controllo, fuori c’era ancora un poco di luce.
Mi avevano avvertito di stare attento quando mi muovevo di notte, perché c'erano da qualche parte, là attorno, due cani lupo, che avevano fatto amicizia col personale diurno. Con loro s'erano affiatati e stavano buoni, dato che ricevevano da mangiare, ma io per quei cani ero uno sconosciuto.
Li temevo un po’; per fortuna durante il mio primo giro non s’erano visti.
Ma che freddo fuori: meno male che avevamo i giacconi col pelo. E che differenza rientrando nella baracca!

Al momento di accompagnare le sentinelle del secondo turno, fuori c’era così buio da obbligarci ad andare a tentoni, tenendo come guida il reticolato del campo. C’erano anche gli altri a cercare con me la strada giusta da fare.
Il vento era cresciuto e, se non era bora, ci mancava poco!

Dopo un’altra oretta mi toccava un nuovo giro di ispezione. Stavolta ero da solo a muovermi in quel buio, a tentoni, verso le garitte.
Verso la baracca Tutto bene. Appena mi sono avvicinato ogni guardia mi ha dato il “Chi va là!”, come nelle istruzioni, perciò tutto ok: nessuno s'era addormentato.

Per fortuna il ritorno era più facile dell’andata. Infatti non si poteva sbagliare la direzione da prendere, dato che il vento fortissimo risucchiava dal camino della baracca una lunga scia luminosa, di rosse, incandescenti faville.
Era un vero spettacolo: quasi un fuoco d’artificio, da restar lì ad ammirarlo se non fosse stato per il gelo di quelle ventate.

Mi era andata ancora bene: niente cani; ma non poteva essere sempre così.
Infatti, l’incidente è avvenuto durante il mio quarto o quinto giro.
E’ stato allora che tra i fischi del vento, all’improvviso, ho avvertito un rumore strano alle spalle. Appena il tempo di rendermene conto, che già una presa di denti mi stringeva un polpaccio. Non so se sia stato perché ho gridato o forse perchè le divise dei militari hanno tutte lo stesso sapore, ma il cane ha mollato la presa e s’è allontanato nel buio.

Rientrato nella baracca, alla luce, ho visto che sulla gamba i denti del cane mi avevano lasciato soltanto un piccolo graffio. Non così invece per i miei calzoni, ahimé: c'era lì un bello strappo di parecchi centimetri.
Che sfortuna: era il paio più bello, quello che usavo per andare in licenza!
Beh, la mia fidanzata sarebbe stata lo stesso contenta di rivedermi.

Ancora un paio di mesi di quella strana vita e poi, col mio congedo, l'inizio di cose nuove e più importanti responsabilità.



G.A.

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